Con i pazienti “Falso Sé” vi è una specifica forma di dissociazione. Si ritrovano nelle loro storie, infatti, alcuni processi “primitivi” che avevano anche superato, ma che sono ritornati in modo massiccio, fino a dominare totalmente il modo in cui l’esperienza personale è organizzata.
La stanza d’analisi può diventare con estrema facilità l’ennesimo luogo, per queste persone, in cui comportarsi in modo compiacente, non manifestando un’autentica espressione di sé nello spazio di cura. Nello spazio che è momento di accoglienza del loro essere e dei loro bisogni/desideri.
Fondamentale, quindi, è che il terapeuta, valutata questa condizione, si ponga all’interno della relazione di cura, come un “collaboratore”, senza mai cercare di creare un rapporto asimmetrico in cui “qualcuno ne sa più dell’altro”.
L’ambiente terapeutico deve caratterizzarsi come luogo di “comprensione” e “reciprocità”. Solo questo può permettere di intraprendere un percorso di narrazione della storia, in cui il paziente scopre in quali modi ha cercato di “rimediare” alle mancanze del suo ambiente infantile. E solo in questo ambiente “paritario”, la persona scopre quanto sia ancora “intatto” il suo bisogno di attaccamento, nonostante le gravi ferite.
In questo senso “l’attaccamento” ha il ruolo del legame, in termini di “sicurezza e salvezza”, come in altri termini il “sostegno” tende a sviluppare l’autonomia.
Nel Falso Sé si assiste, infatti, alla presenza di un pensiero, e un’organizzazione, che non prevede uno scambio con l’ambiente, in quanto i propri bisogni e desideri soggettivi non vengono in alcun modo presi in considerazione (Dissociazione).
Vi è un’angoscia specifica nel Falso Sé che porta la persona a porsi, nelle relazioni, in due modi fondamentali: da una parte abbiamo chi è sempre “arrabbiato” e “sarcastico”, e che quindi stabilisce rapporti in cui l’altro è qualcuno da “annientare”. Poi abbiamo, invece, chi è evidentemente accondiscendente e idealizza l’altro, come fosse un “oggetto da idolatrare”.
Voler umiliare, voler prostrarsi, e quant’altro sono tutte strutture di auto-protezione, con cui la persona cerca di “mascherare” il “grande imbroglio subito nell’infanzia”.
Fare subire all’altro quello che è capitato a se stessi.
Riprodurre continuamente e artificiosamente il torto subito nell’infanzia.
Non sono altro che “rituali drammatici” con cui si cerca di evitare il “terrore dell’annientamento” che si è vissuto solitariamente quando si era bambini.
Terrore e solitudine che ha provato quel bambino rimproverato e affettivamente mal curato, che sistematicamente veniva fatto sentire “incapace” e privo di emozioni significative.
Padri e Madri apparentemente devoti, costringevano il figlio ad indossare una maschera, per nascondere se stesso, e poter così “accudire i bisogni dei genitori”.
Figli che per poter affettivamente sopravvivere (ruolo dell’attaccamento) erano costretti a ripudiare la bellezza della loro infanzia.
La relazione con chi si doveva prendere cura di loro, altro non era che un gioco di inversioni di ruoli.
Gioco taciuto e disconosciuto, che altro non era, per quel bambino, se non l’oblio del suo autentico Sé (Vero Sé).
In queste persone, a causa di tutte queste condizioni, è spesso, infatti, preminente un tono affettivo depresso.
Francesco Urbani
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http://www.radiokafka.it/clinica-e-affetti-del-falso-se-seconda-parte/