La pubertà: metamorfosi del sé
Psicoterapeuta, psicoanalista – Società Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica
Vorrei poter partire da una esperienza personale per meglio far comprendere il vissuto psicologico, intrapsichico dei nostri figli, degli adolescenti, ma in generale anche di quanto accade a tutti noi quando ci troviamo alle prese con qualcosa di nuovo.
Quando mi è stato chiesto di parlare dell’adolescenza, di questa particolare fase dello sviluppo, inizialmente mi sono sentita pervadere da varie sensazioni ed emozioni. Se per un verso l’idea di fare, di riprendere in mano i libri per imbastire un discorso coerente mi entusiasmava, per l’altro verso l’idea di dover parlare ad altri mi esponeva ad un mio vissuto emozionale, considerando che io mi sento e dunque mi identifico più come psicologa clinica, psicoterapeuta psicoanalista, piuttosto che relatrice e tantomeno scrittrice. Come a dire, mi sento molto più a mio agio nel mio piccolo studio piuttosto che pensarmi in uno spazio, in una cornice che offre una visibilità ben più grande. Se ci facciamo caso ho appena parlato di “piccolo” riferendomi al mio studio, e di “grande” con chiari riferimenti a questa opportunità che mi è stata offerta; già siamo di fronte ad una dicotomia, direbbero i filosofi: piccolo-grande, in psicologia si utilizza il termine scissione. E quindi, di come nel mio immaginario passare da una condizione di piccolo/piccola ad una condizione di grande mi abbia in qualche modo esposta ad una sorta di tumulto emozionale: mi sono sentita eccitata, entusiasta, emozionata, ma anche un po’ preoccupata, perché mi son detta: “Cosa potrò mai dire di nuovo che già non si sappia, che non sia stato letto in riviste, in libri o semplicemente ricercato sul Web?!” Eccolo qui il mio tumulto emozionale.
Una condizione, psicologicamente parlando, comprensibile quando noi tutti dobbiamo affrontare qualcosa di nuovo di cui non abbiamo alcuna esperienza. Nel mio caso, però, è bastato “pensar-mi” facendo affidamento alla mia struttura psichica, al mio equilibrio psichico e ancorarmi alla mia identità per gestire tutto ciò, ma questo perché io sono già grande, ho una chiara e definita percezione di me stessa, posso quindi fare riferimento ed affidamento alla mia consapevolezza, a ciò che io sono. Cosa sarebbe successo se io fossi stata una ragazzina? Pensate ai vostri figli… per un attimo, mettetevi nei loro panni, come affrontereste esperienze nuove senza la possibilità di contare, di poter fare affidamento alla percezione, alla consapevolezza di una propria identità?
Qui il tumulto emozionale si amplifica notevolmente, anzi, credo che forse possa essere elevato a potenza. Questo perché la loro è ancora una personalità fragile e frammentaria, in fieri in uno spazio-tempo dilatato, apparentemente senza più confini (pensiamo alla tarda adolescenza).
Ma ritorniamo alla domanda iniziale. Cosa sarebbe successo se io fossi stata una ragazzina, un ragazzino?
Ragazzina-ragazzino. Vedete come anch’io ho dovuto trovare una parola, un diminutivo, proprio perché non posso ancora dire ragazzo, ma neanche bambino. Anche nella lingua italiana non esiste un termine che possa essere identificativo di questa particolare età.
Questa difficoltà la viviamo anche noi adulti, genitori, insegnanti, quando dobbiamo rapportarci con loro. Anche noi siamo, più o meno inconsciamente, alle prese con questa scissione. Ed allora, può capitare che a volte ci appelliamo a loro come se fossero già grandi, tipica è al riguardo l’espressione di noi genitori, ma anche di alcuni insegnanti, “ormai sei grande e puoi capire”. Altre volte, invece, ci ritroviamo a trattarli ancora da bambini, e solitamente ciò accade a seguito di una loro richiesta emancipativa, “ancora sei piccolo, non va bene”. Ed ancora, soprattutto quando i discorsi si ingarbugliano e noi adulti contattiamo un certo imbarazzo, ci è più facile trovare un escamotage in espressioni del tipo “ancora sei piccolo e non puoi capire”. Che confusione! Ma mentre noi adulti, ben ancorati alla nostra identità (o spesso almeno ad un nostro ruolo più definibile), presi dalle nostre attività quotidiane, dai nostri impegni e doveri, in qualche modo liquidiamo questa faccenda, ossia questa “confusione”, per i nostri figli è più difficile sbarazzarsene, perché loro la vivono, sono costretti a con-vivere.
Rymond Cahn, un grande studioso francese, psichiatra e psicoanalista, direttore e responsabile per oltre 16 anni di un progetto di cura e assistenza per gli adolescenti, così scrive a proposito della adolescenza:
“Non importa che questo cambiamento sia stato più o meno desiderato, temuto o rifiutato, che a volte non sia stato neppure immaginato o pensato: ormai niente sarà come prima. Tanto più che l’evento-avvento non si circoscrive ad un fenomeno materiale che il soggetto potrebbe a suo piacere rivelare o nascondere, accettare o rifiutare: lo impedisce l’ampiezza del fenomeno, che straripa sia all’interno, con l’insorgere di emozioni, sentimenti e pensieri fino ad allora sconosciuti, sia all’esterno, nello sguardo e nell’atteggiamento degli altri, che cambia in modo più o meno evidente.”
Ho evidenziato alcune parole che mi sembrano piuttosto rappresentative per la nostra riflessione. Le parole sono: cambiamento, fenomeno, straripa, interno ed esterno.
Proviamo ad analizzarle.
La prima parola è “cambiamento”; nel dizionario della lingua italiana tra i vari significati troviamo “mutamento, trasformazione, variazione” ed ancora “atto ed effetto del cambiare” ossia di diventare diversi; cosa tra l’altro per niente facile e scontata, potremmo aggiungere noi. Un’altra definizione della parola “cambiamento” proviene dal linguaggio della scherma, intendendo l’azione per deviare, e quindi evitare la spada, in gergo il ferro, dell’avversario dalla linea di offesa. Come possiamo vedere il “cambiamento” non sempre evoca una dimensione evolutiva, ma ne contempla anche una difensiva.
Quindi quando Cahn usa il termine “cambiamento” io credo che egli non contempli l’aspetto evolutivo e biologico, ma al contrario vuole evidenziare l’irruzione del cambiamento mettendo in risalto l’aspetto anche difensivo. Egli infatti dice “ormai niente sarà come prima”. Per intenderci, nostro figlio/a non sarà più il bambino di prima, ma il problema è che non è ancora diventato il giovane di domani. Lo diventerà, certo, ma quale incognita da sostenere, da tollerare”.
Eccola la scissione piccolo-grande di cui parlavo prima e che determina confusione. “Non sono più piccolo, ma nemmeno grande. Chi sono dunque? Come mi devo sentire, percepire e vedere? E gli altri, gli adulti, gli amici stessi come mi vedono? Come mi percepiscono? E soprattutto, che valore mi dò e/o mi danno?”
Altro che confusione questo è caos; è caos interno ed esterno.
Ritorniamo alle parole da analizzare. Cambiamento, scrive Cahn, come “fenomeno naturale, imprescindibile, inevitabile”, non a caso lo definisce evento-avvento. L’evento è un qualcosa che accade, che accadrà o che forse è già accaduta; l’avvento, secondo la tradizione cristiana rimanda alla venuta, alla nascita, ai giorni che precedono il Natale, quindi alla nascita di Cristo, per noi, nell’hic et nunc, nel qui e ora, è invece la nascita del giovane.
Ed allora abbiamo detto “cambiamento come fenomeno che straripa sia all’interno che all’esterno”.
Iniziamo col considerare lo straripamento dall’esterno, ossia, iniziamo dal corpo proprio xke più evidente, oltre al fatto che Qualcuno, anni or sono, sosteneva che l’Io è prima di tutto un Io-corporeo, solo in un secondo tempo avverrà l’insediamento della psiche nel corpo, cioè di tutto ciò che concerne sentimenti, emozioni, pensieri e affetti.
È un dato più che tangibile, oggettivo, inconfutabile, è il corpo che cambia. E queste trasformazioni corporee avvengono sotto gli occhi di tutti, dei nostri e dei loro. L’apparizione dei primi peli, le modifiche dell’aspetto degli organi genitali, la crescita del seno, del corpo nel suo insieme, questo corpo “Altro” che si impone, e sottolineo s’impone, più o meno rapidamente, non solo alla vista, ma anche al tatto, all’udito e all’olfatto.
Corpo “Altro” nel senso che non è più il corpo infantile di appartenenza al genitore, ma il guaio è che ancora, in particolar modo nella pubertà, questo corpo non appartiene nemmeno a loro e per questo viene dunque percepito e vissuto, inizialmente, come un corpo estraneo. È l’estraneo perturbante che si impone.
Ora noi sappiamo che qualsiasi cosa che si impone può trovare una resistenza, è questo il caso in cui il soggetto, con la complicità delle figure di riferimento, potrebbe far finta che nulla sia cambiato. Questo suo rifiuto si prolungherà a seconda del suo grado di tollerabilità, quindi avrà pure 12, 13 anni, ma si comporterà ancora come se fosse un bambino, aspetto questo che spesso collude con una volontà del genitore di non riuscire a tollerare che il proprio figlio cresca, ma che rimanga quel bambinone tanto caro e buono che in fondo tranquillizza tutti.
L’imposizione, però, può anche travolgere e turbare, è questo il caso in cui le trasformazioni corporee vengono vissute dal ragazzino come deformanti facendolo sentire sempre inadeguato: troppo basso-troppo alto, troppo magro-troppo grasso…c’è sempre qualcosa del proprio corpo che non va bene.
Pian piano, e ripeto pian piano, all’interno di questo spazio-tempo, di quello che abbiamo definito essere il periodo adolescenziale più o meno ampio, considerando anche le difficoltà, le fatiche di cui abbiamo appena parlato, questo corpo Altro, questo estraneo perturbante, sarà sempre meno estraneo, sempre meno perturbante per il soggetto fino a quando cadrà sotto il proprio dominio, si potrà così parlare di “Appartenenza del proprio corpo”.
Passiamo ora alla parola interno, l’azione è sempre quella dello “straripamento”. Ovvio che se l’esterno riguarda il corpo, l’interno non può che far riferimento a tutto quello che riguarda, e ce lo dice lo stesso Cahn, alle emozioni, ai sentimenti e ai pensieri… ma che sono sconosciuti, cioè fino ad allora mai provati. Perché quei cambiamenti nel corpo, i nuovi modi d’essere espongono il soggetto, il ragazzo, all’irruzione di nuovi affetti, di nuove emozioni e soprattutto di nuovi desideri, quindi per questo più impellenti, poco o per niente contenibili, con un carattere più o meno crudamente sessuale.
Il corpo pubere, ossia il corpo delle trasformazioni corporee, è il corpo che si risveglia alla sessualità. Una sessualità ancora vaga, indefinita e priva di meta, che compare proprio in questi anni come esaltazione endogena, condizionata dallo sviluppo delle ghiandole sessuali e dalla percezione o dalla rappresentazione del proprio e altrui sesso. Quindi, esaltazione dell’eccitamento (biologico-fisico-psichico) che chiede di essere investito.
In futuro questo eccitamento verrà assorbito e tramutato in sentimento amoroso e scelta del partner.
A questo punto c’è rimasta un’altra parola da analizzare e che non a caso ho lasciato per ultima: “cambiamento come fenomeno che straripa sia all’interno che all’esterno”. La parola è straripa. Straripare fa venire subito in mente le acque dei fiumi, dei corsi d’acqua che escono dagli argini, che inondano le zone circostanti causando a volte anche danni a cose e persone. Quindi ci fa pensare a un qualcosa che va contro la nostra volontà, che ha un certo impeto inarrestabile, quindi a qualcosa che è anche violenta. L’analisi di questa parola ci permette di comprendere la portata di questo cambiamento. Anche perché, come già detto all’inizio, la loro è una personalità fragile e frammentaria, non hanno ancora una identità definita sulla quale ancorarsi. Il cambiamento diventa quindi più travolgente, denso di paure, angosce, confusioni, turbamenti…eccolo qui il tumulto, l’agitazione emozionale, il non sapere chi si è, e la paura, il temere di non riuscire a essere ciò che si vorrebbe essere, ciò che si sogna. In taluni casi, più delicati, più estremi, la paura si potrebbe trasformare in terrore. Terrore nel non sapere chi si è, nell’angoscia sempre più crescente di non sapere chi si vorrebbe o dovrebbe essere, con il rischio di un “breack-down”, ossia di una vera e propria rottura, una frattura dello sviluppo con un’implicazione intrapsichica più complicata e complessa.
E’ ormai risaputo di come le arti in genere, in particolare la letteratura, abbiano il dono, la capacità di attingere ad una forma di comunicazione privilegiata la quale attraverso allegoria, metafora, segno, suono riescono meglio ad esprimere e a tradurre emozioni, sentimenti e turbamenti.
Ho così scelto, tra vari testi, il romanzo: “Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie” di L. Carrol, in quanto credo possa prestarsi meglio alla nostra riflessione. Questo è un racconto, tra l’altro, che ha offerto ottimi spunti alla psicoanalisi. Quello che vorrei quindi proporvi è un brevissimo passo del testo in riferimento a quanto detto sopra.
Ma chi è Alice? Alice è una ragazzina di 10 anni che durante un uscita in barca chiede al futuro romanziere di raccontare a lei e alle sue due sorelle, Edith di 8 anni e Lorina di 13, una storia. Nasce così il racconto di “Alice nel paese delle meraviglie”.
La musa ispiratrice è dunque Alice, ma Alice, abbiamo appena detto, è una ragazzina di 10 anni, sta nel “mezzo” tra Edith di 8 anni e Lorina di 13. Alice sembrerebbe quindi essere la “nostra ragazzina”, ossia quella ragazzina alle prese con la pubertà, non più una bambina, ma non ancora un’adolescente. Ed è interessante che sia proprio lei a fare richiesta di un racconto, che chieda (all’) altro mentre è alla ricerca di sé. Mi viene in mente il concetto di “narrazione trasformativa” di A. Ferro, sottolineandone la potenzialità che le narrazioni hanno per favorire le trasformazioni.
L. Carroll ac-coglie la richiesta della ragazzina e riesce a tradurla in un racconto che mette bene in evidenza il vissuto corporeo e il conflitto intrapsichico della protagonista, che non riesce più a riconoscersi nella propria identità soggettiva.
La storia, come tutti sappiamo, ha inizio con Alice che insegue uno strano coniglio. È un coniglio bianco, con addosso una giacca con il panciotto e un orologio da tasca che guarda ossessivamente ripetendo “è tardi, è tardi”. Quasi a voler sottolineare come il tempo esterno, quello reale, non sempre coincide con un tempo interno, quello intrapsichico che necessita di tempi più dilatati. E comunque, durante questo inseguimento, Alice scivola in una buca, una strana buca, è la tana del coniglio. Alice scivola, scivola sempre più giù, in profondità (psichica), fino ad arrivare in una strana stanza con tante porte chiuse. C’è anche una chiave, ma inizialmente l’unica porta che quella chiave può aprire è alta poco più di una trentina di centimetri. Alice si abbassa, si inginocchia, apre la porticina e sbirciando con un occhio riesce ad intravedere che al di là di quell’uscio c’è un fuori, c’è un bel giardino. Ma come arrivarci? Scorge, sul tavolino, una bottiglietta con su scritto “bevi-mi”, certo è un attimo perplessa, spaventata, ma alla fine si decide, beve e “che strana sensazione” diventa piccola. Certo per un attimo prova anche un certo sgomento, angoscia per quel suo diventare piccola, perché potrebbe anche sparire però è anche contenta perché adesso finalmente potrà passare dalla porticina. Ma solo allora si accorge di aver dimenticato la chiave sul tavolo, ma lei ora è piccola e non può più prenderla. Si sforza, cerca di arrampicarsi su una delle gambe del tavolo, ma scivola, non ci riesce. La poverina si siede per terra e inizia a piangere. Ma ecco che scorge sotto il tavolo una cassettina, l’apre e vi trova un piccolo pasticcino con su scritto “mangia-mi”. Che bel pasticcio, potremmo dire, e adesso? Alice, dopo qualche perplessità mangia quel “pasticci(n)o”, trovando anche una sua soluzione, un modo per venirne fuori da quella strana situazione. Infatti, si dice che se ciò la farà crescere tanto allora potrà afferrare la chiave altrimenti, al contrario, se diventerà ancora più piccola passerà da sotto la porta, e qui Alice dice una cosa importante: “in un modo o nell’altro arriverò in quel giardino” … a questo punto, come ricorderete, cresce così tanto da arrivare al soffitto. Afferra la chiave e va verso la porticina, ma ahimè, stavolta è troppo grande per potervi passare. E si rimette nuovamente a piangere, anzi a singhiozzare dicendo a sé stessa come ogni cosa fosse strana in quel giorno, anzi le pare di essersi alzata che già sentiva un po’ diversa, che fosse cambiata durante la notte? E poi temendo di non essere più lei inizia ad interrogarsi su chi potrebbe essere, dubita anche di poter essere diventata una delle sue amiche. Che confusione!
Chi sono? Questo è il pasticcio!
Che angoscia, che turbamento, che destabilizzazione di fronte ad un corpo che è in trasformazione, che non si riconosce più.
Alice vive un’intensa ambivalenza emotiva, se per un verso prova curiosità, stupore nel vedere il proprio corpo modificarsi, per l’altro verso è spaventata, è turbata. È inquietante non potersi riconoscere in un corpo che non è più sentito come quello di prima e che continua a trasformarsi. È l’estraneo perturbante. Alice prova infatti un senso di estraneità, non sa più chi è. La percezione del suo corpo, della sua immagine goffa e sproporzionata, troppo piccola/troppo grande, la lascia lì, sulla soglia, facendole sperimentare un vissuto di inadeguatezza Ci prova ad aprire quella porta e ad oltrepassarla, ad andare dall’altra parte, lì dove è forse possibile ritrovare la nuova identità.
Eccolo qui il ragazzino, incastrato in una posizione critica che lo vede andare in avanti- verso il divenire adulto-o un tornare al passato- verso l’infanzia (Meltzer).
L’arrivo delle prime mestruazioni nelle ragazze, così come le prime eiaculazioni nei ragazzi segna l’ingresso nel mondo della genitalità. L’entrata nel mondo della genitalità (riorganizzazione delle pulsioni parziali sotto il primato della genitalità) ha però il suo prezzo da pagare. Obbliga il soggetto a dover rinunciare alla propria infanzia. Da questo momento in poi sia il ragazzino che la ragazzina, inconsciamente o incoscientemente, sanno che possono diventare loro stessi padre e/o madre perdendo così il privilegio di essere figli.
Questa immagine inconscia, simboleggiata in un corpo che si fa sentire e vedere nella sua prepotenza mascherando la sua verità interna, può generare angoscia proprio perché non c’è ancora una mente pronta ad accogliere tutto ciò. Perché non è per niente facile abbandonare una condizione di certezze e abitudini che l’infanzia, fino ad allora, ha assicurato per qualcosa che è ancora ignota. Come già detto la loro è un’identità incerta e appena abbozzata e non si gioca come nell’adulto tra ciò che si è e la paura di perdersi, ma nel divario ben più drammatico tra il non sapere chi si è e la paura di non riuscire ad essere ciò che si sogna (Galimberti). In poche parole, bisogna far morire il bambino e con lui tutti i suoi vissuti relazionali e affettivi per far nascere il giovane. La pubertà segna infatti l’inizio della separazione e della distinzione ossia della soggettivazione (giuridicamente è diventare maggiorenne). Bisogna, dunque, far i conti con la perdita (elaborazione del lutto) del proprio corpo infantile che non c’è più. E con esso anche i genitori dell’infanzia e non semplicemente perché veniamo deidealizzati, cioè non siamo più i loro super-eroi, ma cambia proprio o viene del tutto a mancare quella relazione protettiva tipica dell’infanzia. Oltre al fatto che la necessità di separarsi dalla precedente immagine di sé, quella infantile, implica necessariamente la separazione anche da “quelle” figure genitoriali, quelle appunto dell’infanzia (allontanamento dall’investimento edipico), ecco perché si assiste anche ad una rielaborazione-ridefinizione delle relazioni e degli affetti, cioè in poche parole i rapporti cambiano.
Lo spazio, il tempo e il bisogno di stare da soli diventano fattori molto importanti in questa particolare fase della vita, per giungere alla consapevolezza della nuova condizione. Concetti forse un po’ troppo in disuso, non più di moda nell’attuale società sempre più frenetica e sempre più esibizionista (Grande Fratello, l’Isola dei famosi…). Eppure, lo spazio, il tempo e la solitudine sono fattori importanti proprio perché permettono all’individuo di aprire uno spazio dentro se stesso presupposto indispensabile per poter interagire con il proprio mondo interno. Quindi non sempre la solitudine è sinonimo di malattia. Anzi, in questo caso, è proprio una condizione necessaria perché aiuta i nostri figli a mentalizzare quanto sta accadendo loro, offrendo dunque la possibilità di conoscersi meglio.
Naturalmente sta anche a noi adulti capire se la loro è una solitudine “sana” o se un ripiegamento, un ritiro in se stessi, segno di un malessere che necessità, in questi casi, di un aiuto psicologico.
A questo punto, direbbe qualcuno, la domanda nasce spontanea. Noi adulti, noi genitori come possiamo aiutarli? Come possiamo sostenerli senza ostacolare la loro crescita e il loro sviluppo? E dunque far sì che l’adolescente progredisca nella sua assunzione di responsabilità? Perché da adesso in poi non sarà più il bambino da coccolare e proteggere, pian piano imparerà che ad ogni azione segue sempre una conseguenza.
Partiamo dal presupposto che crescere rappresenta, almeno nel suo valore più intrinseco (inconscio) un movimento necessariamente aggressivo. Questo forse ci permette di comprendere meglio lo scenario e/o i particolari atteggiamenti aggressivi tipici di questa età. Sfida e dipendenza sembrano continuamente alternarsi confusamente nel loro relazionarsi con noi adulti al punto da lasciarci anche un po’ sconcertati di come possano mostrarsi così provocanti e nello stesso tempo così dipendenti da sembrare, alcune volte, anche piuttosto infantili.
Agli adulti, ai genitori, si richiede un ruolo quasi terapeutico. A noi spetta l’importante funzione di sopravvivere ai loro attacchi aggressivi, talora anche violenti, senza abbandonare la propria posizione, il proprio ruolo di adulto ed in particolare di genitore, reinventandoci anche nuove forme di relazione, il che vuol dire anche patteggiare, giungere a compromessi impensabili, senza mai rinunciare al proprio ruolo. Abdicare, in questo particolare momento, finirebbe per assegnare all’adolescente una responsabilità troppo grande che ostacolerebbe la sua crescita e il suo sviluppo.
Perché in fondo quello che gli adolescenti ci chiedono non è quello di essere sempre compresi. Gli adolescenti hanno solo bisogno di essere rispettati nel proprio spazio vitale dove sperimentano le loro trasformazioni corporee e psichiche.
Essere genitore, scrive Winnicott, non è il risultato naturale di un amore romantico. Paradossalmente i nostri figli hanno più bisogno di avere dei genitori che di essere (troppo) amati.
Il genitore ama, ma anche odia, e soprattutto sbaglia, fallisce e poi ripara continuamente i suoi fallimenti, perché siamo umani. Questo è essere genitori. Svolgere quella fondamentale funzione che è il permettere al proprio figlio di acquisire una progressiva indipendenza o meglio il passare da uno stato di assoluta dipendenza ad uno stato di dipendenza relativa.
Questa è la sfida a cui noi adulti siamo chiamati, esserci riuscendo a stare nel proprio ruolo. Questo significa essere disponibili, pronti a rispondere quando si viene chiamati, per sostenere e incoraggiare, ma intervenendo attivamente solo quando è veramente necessario. I nostri figli, i nostri ragazzi devono poter fare esperienza di se stessi, non sostituiamoli, come spesso accade per il troppo amore, per la troppa protezione o per necessità personali. Non funziona così. Perché impediamo al loro “Io” di crescere e di maturare, ossia di strutturarsi. Se solo riuscissimo ad entrare in contatto con la nostra adolescenza, forse sarebbe anche più facile comprendere quello che sta accadendo loro.
Comprenderemo forse meglio che questa tappa obbligata, con le sue più o meno difficoltà, fatica e dolore, perché crescere è davvero impegnativo e doloroso, li condurrà al di là della porticina, oltre quell’uscio, dove per un certo periodo di tempo, più o meno lungo a seconda dei casi specifici, sono rimasti bloccati, più o meno impacciati, goffi, confusi e impauriti. Solo allora, dopo questa tappa obbligata, potranno finalmente accedere a quel giardino, con una ridefinizione del proprio sé ed una più definita e specifica strutturazione della propria identità di genere diventando così le nostre donne e i nostri uomini del domani.
Bibliografia
AA.VV, Psicodinamica dell’adolescenza Adolescenti in relazione. Guerrieri Studio Editore, 2001.
Raymond Cahn, L’adolescenza nella psicoanalisi. L’avventura della soggettivazione. Borla Editore, 2000.
Raymond Chan, Adolescenza e follia. Borla Editore, 1994.
Winnicott D. W., La famiglia e lo sviluppo dell’individuo. Armando Editore, 1992.
per saperne di più https://www.inpsiche.it/essere-adolescente-nelladolescenza/