Per l’elaborato di tesi della mia laurea triennale in Tecnica della Riabilitazione Psichiatrica ho avuto l’opportunità di essere appoggiata dall’associazione “Il Bucaneve ODV”, e in particolare dalla Dott.ssa Stefania Lanaro, per poter trattare della tematica relativa alla prevenzione dei disturbi del comportamento alimentare nei bambini. L’obiettivo del questo lavoro è stato infatti quello di prendere in esame il rapporto che i piccoli sviluppano fin dall’età scolare con gli alimenti e il momento del pasto, al fine di rilevare l’eventuale presenza di comportamenti interpretabili come campanelli d’allarme nei confronti dello sviluppo successivo di disturbi del comportamento alimentare; è ovvio, a tal proposito, che prima si interviene maggiori sono le possibilità di successo ed è altrettanto sicuro che per intervenire precocemente è necessario essere formati a riconoscere eventuali comportamenti disfunzionali.
Per permettere un’analisi completa, l’elaborato è stato diviso in tre parti.
La prima parte è stata dedicata ad un’introduzione teorica ai disturbi del comportamento alimentare che nel primo capitolo sono stati trattati in modo generale (breve excursus storico, criteri diagnostici secondo il DSM-5, fattori di vulnerabilità, nuove forme di DCA), mentre il secondo capitolo è stato dedicato in maniera più mirata ai bambini (principali classificazioni attualmente in vigore, ruolo della famiglia e delle istituzioni scolastiche, lavoro psicoterapico e sul corpo più indicati).
A partire da questa introduzione teorica, si arriva poi alla seconda parte, la quale è stata dedicata all’analisi del questionario da me proposto, seguito dalla trattazione su ciò che è emerso durante l’incontro tenutosi grazie all’associazione il Bucaneve riguardante il rapporto dei bambini con il cibo. Infine, la terza parte, concernente il ruolo del tecnico della riabilitazione psichiatrica, si concentra su quelle che sono le strategie e le risorse che questo professionista può portare all’interno di un’equipe multidisciplinare dedicata.
Il questionario riporta il titolo “Il rapporto tra lo stile alimentare e i bambini in età scolare” ed è stato somministrato ai genitori di bambini in età scolare; esso contiene 38 domande concernenti il momento dei pasti e i comportamenti ad essi correlati messi in atto dai figli. Sono state alternate domande a risposta multipla con altre che permettevano invece una riflessione libera da parte del soggetto partecipante. I temi trattati nei vari item sono stati scelti tenendo in considerazione le principali manifestazioni dei disturbi del comportamento alimentare, i principali comportamenti ad essi associati e le abitudini che la letteratura ha dimostrato essere più frequentemente messe in atto. L’aiuto della Dott.ssa Stefania Lanaro è stato di fondamentale importanza per permettermi di calarmi ulteriormente all’interno di questa complessa realtà.
Il questionario, compilato da 91 persone, mostra una prevalenza (60,4%) di partecipanti lombardi, di conseguenza è opportuno sottolineare che, anche solo per distribuzione geografica, non rispecchia tutta la popolazione; per quanto riguarda invece l’età dei figli a cui i compilanti fanno riferimento si ritrova un picco di 18 anni e un minimo di 2 mesi, anche se la maggioranza si colloca nella fascia 5-10 anni, aspetto che risulta essere pienamente in accordo con la dicitura “bambini in età scolare”. Il campione è assolutamente omogeneo dal punto di vista del sesso poiché si rileva un 49,4% di maschi contro il 50,6% di femmine.
Il primo dato che emerge già dalle prime domande è che circa la metà dei partecipanti (49,5%) afferma che i loro figli durate il periodo scolastico sono soliti pranzare nella mensa scolastica e che il menù che quotidianamente viene loro offerto, nella stra grande maggioranza dei casi (95%), non può essere scelto se non per quanto concerne allergie e/o intolleranze.
Tale dato in linea di massima potrebbe essere interpretato come positivo, in quanto potrebbe far pensare che sia un modo che la scuola usa per affiancare la famiglia in un’educazione alimentare volta sin da subito ad insegnare l’importanza di un’alimentazione ricca e variegata, se non fosse per i dati che emergono successivamente e che fanno riferimento ad abitudini o preferenze alimentari manifestate. Infatti, il 19,8% dei partecipanti afferma che è importante per il figlio che durante il pasto il cibo sia preparato in un certo ordine e/o tagliato con precisione, ma ancora più emblematiche risultano essere alcune risposte alla domanda “suo figlio si rifiuta di assumere determinate tipologie di alimenti?”. Come si potrebbe immaginare, la maggior parte delle risposte riguardano il rifiuto nei confronti delle verdure, in particolar modo quelle verdi, della frutta, oppure dei formaggi, ma si ritrovano anche affermazioni come “alimenti che contengono troppi ingredienti mischiati tra di loro” e “tutto il cibo che fa ingressare”. I dati naturalmente non permettono di generalizzare, ma potrebbero far pensare, nel primo caso, ad un’avversione selettiva verso il cibo, la quale identifica la tendenza del bambino ad alimentarsi unicamente tramite alcuni alimenti, mentre altri vengono rifiutati per via di sapore, odore o consistenza, e nel secondo caso si ricade in uno degli aspetti che trasversalmente caratterizzano quasi tutti i disturbi del comportamento alimentare, ovvero la paura di prendere peso. Un’indagine più accurata e più ampia potrebbe risultare interessante in tal senso.
Un altro aspetto che stride con la rigidità del menù scolastico e che non permette di considerarlo, almeno a mio avviso, uno strumento adeguato ad insegnare la corretta alimentazione è ciò che emerge dalla domanda “durante il pasto suo figlio mangia…”, di cui sono risultate interessanti quasi tutte le risposte; infatti, è emerso che:
- l’8,8% dei bambini a cui i partecipanti si riferiscono è solito assumere una quantità eccessiva di cibo e molto velocemente;
- il 10,3% assume una quantità di cibo definita come nutrizionalmente “normale”, ma in tempi lunghi;
- il 7,3% dichiara che il figlio mangia poco e molto lentamente.
Il discorso sulla velocità o sulla lentezza nell’assunzione di cibo non può essere considerato accessorio o marginale: bisogna ricordare, infatti, che tempi troppo lunghi passati davanti al piatto possono essere considerati come campanelli d’allarme soprattutto in relazione all’alimentazione nei bambini. Un ulteriore campanello d’allarme sono anche i problemi sociali che si correlano fortemente ai disturbi del comportamento alimentare o al loro esordio. Nel questionario, il 6,6% dei partecipanti ha affermato infatti che il figlio a volte fatica a mangiare in pubblico.
Qualcuno dichiara che la causa di questa difficoltà sia da ritrovare nel cibo presentato (e ciò si potrebbe ricollegare al discorso della selettività fatto in precedenza), ma un’altra risposta che spicca è “quando ci sono persone adulte non di famiglia”. Si capisce, dunque, che anche l’aspetto sociale e la perdita della sua naturalità non possono essere più considerati come marginali, ma anzi come importanti segnali premonitori o, nella fase acuta, come veri e propri deficit secondari al disturbo.
Partendo dall’informazione iniziale sulla rigidità del menù, un altro ragionamento che ne è derivato ha riguardato come venissero allora gestite dalla scuola le difficoltà appena trattate; da qui l’importanza dell’educazione alimentare nelle scuole. Emblematico in tal senso è però che il 7,7% dei partecipanti allo studio ha affermato che la scuola dei propri figli non organizza corsi sulla corretta alimentazione dei bambini in età scolare, ma comunque non sarebbe interessato a parteciparvici, mentre il 9,9% dichiara di non parteciparvici visto lo scarso interesse nei confronti dell’argomento. Ancora, si può sottolineare che alla domanda finale riguardante l’organizzazione di incontri
di discussione sulla tematica dell’alimentazione nei bambini addirittura il 38,5% ha affermato apertamente che non sarebbe stato interessato a prenderne parte. Queste considerazioni stridono però con i risultati della domanda che era volta ad indagare se al bambino fossero mai state fatte osservazioni riguardo al peso corporeo: qui il 6,6% ha infatti affermato che commenti di questo tipo sono stati fatti da uno specialista, il 5,5% dichiara dai compagni di classe e addirittura il 13,2% fa riferimento a osservazioni che arrivano proprio dalle figure genitoriali. Ne consegue che dei 91 partecipanti ben il 25,3% ha affrontato il tema delle osservazioni dirette al corpo e al suo peso; di conseguenza il tema dell’alimentazione non può più essere considerato come accessorio o poco rilevante, anche perché viene dichiarato dagli stessi genitori che alcuni bambini hanno reagito alle osservazioni piangendo, arrabbiandosi, demoralizzandosi o addirittura togliendo dalla loro alimentazioni tipologie di cibi che prima erano graditi.
Interessante è risultata per me anche la domanda “dopo il pasto capita che suo figlio abbia subito bisogno di usare il bagno?” infatti ad essa le risposte fanno emergere una maggioranza complessiva (61,6%) che afferma che l’uso del bagno oscilla tra “a volte” e “raramente”. Ciò naturalmente, ancora una volta, non permette di generalizzare e parlare di una sicura condotta di eliminazione, ma comunque potrebbe essere un ulteriore spunto di riflessione. Questo soprattutto perché un altro segnale d’allarme a cui la famiglia dovrebbe prestare attenzione riguarda il fatto che il bambino tende ad assumere molta acqua e ad avere subito bisogno del bagno dopo i pasti.
Un problema aggiuntivo che si potrebbe riscontrare, oltre a quello del campione ristretto, ma comune a tutte le tecniche di inchiesta di questo genere, riguarda il fattore della desiderabilità sociale, ovvero è naturale chiedersi se le risposte che sono state date rispecchino la realtà dei fatti oppure siano dettate dal desiderio di “fare bella impressione” e di dipingere un’immagine piacevole della propria famiglia.
In relazione a tale aspetto, bisogna considerare che alcune risposte, soprattutto quelle temporali (spesso, a volte, raramente, mai), possono essere considerate in maniera soggettiva e non è semplice definirle in modo chiaro e obiettivo. Inoltre, è indubbio che alcune domande toccassero degli argomenti in maniera molto esplicita: si pensi alla domanda sulla fatica a stare a tavola, sulla possibilità di mangiare in pubblico o sulla punizione inflitta al bambino mandandolo a letto senza cena.
La riflessione sulla desiderabilità sociale è scaturita in particolare osservando due domande che, seppur poste in maniera diversa, vanno ad indagare un aspetto simile:
- i bambini rimangono a tavola durante un normale pasto settimanale?
- al momento del pasto suo figlio fatica a stare a tavola?
I risultati che sono emersi da tali item sono infatti differenti poiché alla prima domanda il 56% afferma che i propri figli riescono a rimanere a tavola sempre, mentre nella seconda domanda in esame solo il 39,6% dichiara che i propri figli non hanno mai problemi a rimanere a tavola.
Ancora, alla prima domanda solo il 5,5% afferma che i figli rimangono a tavola raramente, mentre alla seconda si ritrova un 29,7% di chi afferma che i propri figli a volte faticano a stare a tavola.
I risultati appena esposti sono stati anche oggetto della discussione nell’incontro “Bambini, cibo e famiglia. Difficoltà e risorse” tenutosi il giorno 20 settembre 2021 e descritto nel capitolo 4 della tesi.
È chiaro che questa ricerca, essendo stata svolta su un campione relativamente piccolo di soggetti ed essendo che il tema della prevenzione dei disturbi del comportamento alimentare abbraccia molte altre tematiche, richiederebbe sicuramente un’indagine più accurata, ma ritengo che possa essere considerata abbastanza funzionale alla stesura di questo elaborato perché ha permesso di far emergere delle abitudini, dei comportamenti e dei sentimenti che si possono ritrovare in ogni famiglia e che possono essere analizzati per garantire maggiore informazione. Più informazione si correla direttamente ad un maggiore contrasto alla manifestazione dei disturbi del comportamento alimentare nell’infanzia.
In questo contesto, il tecnico della riabilitazione psichiatrica, da un lato, può promuovere la prevenzione primaria basata sia sull’informazione sia sull’analisi dei comportamenti e delle abitudini che, come detto precedentemente, potrebbero essere considerati dei campanelli d’allarme a avviare poi alla prevenzione secondaria; dall’altro lato, in quanto facilitatore della relazione terapeutica, può aiutare in prima persona la famiglia ad instaurare un corretto rapporto con il cibo, ad affrontare le emozioni e i sentimenti che scaturiscono dall’esordio della problematica, oppure a favorire un’innovazione delle abitudini alimentari.